Fino alla prima metà del 1900 Aringo contava diverse attività tra locande, osterie, botteghe e forni, oltre ai vecchi mestieri oggi scomparsi quali ciabattini, carbonai, falegnami, curatori, levatrici, ricamatrici, vinai e altro ancora. Proviamo a ricordarli ricostruendo anche i luoghi dove erano situati.
Le osterie erano 7 e vendevano, oltre al vino, anche generi alimentari di ogni tipo.
- Una locanda si trovava al piano terra dell’attuale palazzo Tudini sulla piazza: era di Giacomo Tudini, detto Mimmo, fratello del Commendatore
- L’osteria di Gaetano Tudini, cugino di Giacomo ed ex sindaco di Montereale, in corrispondenza dell’odierna casa di Ines, accanto al vicolo cieco
- Un’altra era quella di Berardino Dioletta, detto padre Rocco e stava nella via Trento sotto la casa di Chiacchieretta
- Mariano Polidori ereditò l’attività dalla zia Clorinda e insieme alla moglie Letizia mandò avanti quella che diventò poi la vecchia bottega di Carlo e Gabriella, accanto alla fontanella del monumento ai caduti
- Oreste Dioletta aprì la sua osteria nel palazzetto di fronte casa della Fiora. Il figlio Armando la trasferì successivamente sulla piazza
- Natale D’Amico aveva la bottega sulla via principale accanto al vicolo delle Rose. È rimasta aperta fino a metà degli anni ‘80 con il figlio Edoardo che ha poi ceduto la licenza a Giustina
- L’osteria di Natale Di Gianfrancesco, passata poi ad Elviruccia, si trovava all’angolo del vicolo Colasante.
I forni per la produzione di pane erano addirittura 5.
- Giulia, detta la fornara, moglie di Berardino Di Giammarco, aveva la bottega di generi alimentari con forno sulla via Picente vicino al vecchio abbeveratoio. Rimase aperta fino agli anni ‘70 anche se negli ultimi tempi limitò la vendita al sale e alla pasta
- Il forno della Fiora, vicino al fontanone, è rimasto attivo negli anni per gli eredi
- Un altro apparteneva ad Angela Maria della famiglia Rampazzo e si trovava nei pressi dell’Alco Ciani
- Nunziata della famiglia Placidi aveva il forno al vicolo delle rose di fronte la casa di Edoardo
- Scarpariello preparava il pane nel forno che era nella vecchia piazzetta dove ora c’è una costruzione con i mattoncini rossi, accanto casa di Ines.
Numerose altri esercizi si trovavano nel paese. La macelleria Crini ha iniziato la sua attività agli inizi del 1900 con un piccolo box all’interno della bottega di Natale. Era di Giovanni (nonno di Silverio) che si trasferì negli anni ‘50 accanto a padre Rocco per poi stabilirsi dopo qualche tempo nella sua ultima sede chiusa recentemente. Armando “lu Capoccia” vendeva carne e vino, oltre ai generi alimentari, in piazza. I tabacchi si trovavano nella bottega di Letizia. Amalia vendeva frutta e verdura nei periodi meno freddi dell’anno nel vicolo Sardo. Il primo ciabattino fu Ettore Nardi (marito della maestra) che realizzava scarponi in cuoio nella sua casa. Un altro, Francesco di Montereale, lavorava al piano terra dell’odierna casa di Domenico al vicolo cieco. L’ufficio postale fu istituito nel 1903.
La sede era accanto la bottega di Natale e l’ufficiale postale era lui stesso. Alla sua morte subentrò la moglie Caterina e successivamente il figlio Mario. Negli anni ‘70 fu trasferito al vicolo Tudini dove rimase attivo fino alla fine degli anni ‘80. Il barbiere svolgeva nel dopoguerra l’attività presso l’attuale casa di Angeluccio. Il falegname di Aringo era Amedeo Cristiani e aveva la bottega a fianco della vecchia chiesetta al monumento dei caduti. I sarti erano 3: due lavoravano nella casa accanto a quella di Alfredo, il terzo era lu sartore di S. Lucia. Tra le levatrici ricordiamo Santuccia, Adelina, Teresa di Niante, Lucia, Beatrice e Vituccia. Il fabbro era Domenico Dioletta e ferrava somari e cavalli sulla piazza accanto la bottega di Armando. Vi erano perfino dei carbonai che arrivavano da Tornimparte per preparare il carbone. Infine, da ricordare Santuccia, Splendora e Santarella, famose per i raffinati ricami eseguiti su ogni tipo di stoffa lavorata su telaio, Pennicchio che cardava la lana per materassi e cuscini, Caicchione che realizzava fiasche, canestri e cesti, Gildarella che confezionava feltri per cappelli, tappeti e pantofole e Giovanni Mimmocchi che costruiva scope con le ginestre e caglie per i fiaschi.
Non ultimo Nicola Fascetti che, nonostante avesse perso l’uso di una mano, realizzava con molta cura manici per forconi, zappe e vanghe.
Fino agli anni ‘50 oltre alle botteghe c’erano in paese anche due locali per ritrovo denominati Opera Nazionale Dopo Lavoro. Uno si trovava sotto casa di Severina di fronte al fontanone, l’altro accanto l’ex mattatoio di Silverio. Qui si riunivano i paesani al termine delle lunghe giornate di lavoro per giocare a carte, alla morra, bere vino e suonare l’organetto. In passato ad Aringo vi erano tre scuole ricavate per lo più all’interno di abitazioni: la più vecchia sembra sia stata la casa della maestra di fronte al vicolo Colasante, un’altra presso la casa di Argia accanto l’alco Ciani e la più recente sulla strada del poggio subito fuori il paese (in funzione fino agli anni ‘70).
Il castagno da sempre ha costituito una delle risorse primarie nella zona. Il legno veniva e viene tuttora usato sia per la costruzione delle travi per il sostenimento dei solai che per la realizzazione dei paletti usati per le recinzioni oltre che per i manici degli attrezzi da lavoro.
I suoi frutti, insieme alle patate, trovavano molteplici impieghi nell’alimentazione soprattutto per la produzione della farina. In passato, dopo la raccolta le castagne venivano suddivise: alcune venivano lasciate dentro i ricci per tutto l’inverno e conservate sotto terra per essere consumate sempre fresche. Le altre si distendevano ad asciugare su telai di paglia appesi ai soffitti. Una volta essiccate, venivano sbucciate e poi tritate nella pila, un caratteristico mortaio ricavato da un grosso pezzo di roccia scavato nel tufo. Anche le foglie della pianta erano usate, soprattutto nella medicina, poiché hanno un’azione sedativa per l’apparato respiratorio.
Fino agli anni ‘40 ad Aringo si coltivava la canapa giù alla valle in prossimità del fosso. Dopo la raccolta, veniva riunita in piccoli fasci che si lasciavano macerare nell’acqua del fosso per circa una settimana. Trascorsi otto giorni questi si disponevano all’aria aperta ad asciugare per una giornata, quindi si cominciava a frantumare e sminuzzare la canapa facendola passare attraverso due grossi ciocchi di legno fino a ridurla ad un groviglio. A questo punto si stendeva e si iniziava a districare pettinandola col raspo: serviva per ricavarne dei filamenti che venivano prima avvolti intorno al fuso e poi filati a mano fino ad ottenere delle matasse. Infine si passava al telaio.
La preparazione del carbone avveniva sempre fuori dal paese, generalmente in prossimità dei boschi. I carbonai costruivano una particolare catasta di legna molto fitta, detta “carbonera”, sistemata in piedi e disposta circolarmente che formava un tronco di cono e poi la ricoprivano completamente con zolle di terra. Una volta accesa, la legna doveva bruciare a combustione lenta senza fiamma per cui venivano praticati dei piccolissimi fori per lo sfiato dell’aria. Il processo poteva durare da un minimo di 3 o 4 giorni a una settimana. Fino a che non finiva, il carbonaio doveva seguire l’evoluzione ogni istante, notte e giorno, facendo attenzione a lasciar passare il solo ossigeno necessario perché si consumasse lentamente, senza provocare fiammate e senza farla spegnere. Quando tutta la catasta era bruciata il carbone era pronto. Quando si raffreddava si stendeva con lu nastrellu e si caricava nei sacchi. Tra i più conosciuti carbonai del passato si ricorda Paolo Chiappa.