In passato con l’arrivo dell’inverno e il brusco calo delle temperature, ad Aringo ci si preparava a compiere l’operazione – forse un po’ cruda, ma necessaria – della macellazione del maiale. Considerato sicuramente un rito con la presenza di molti partecipanti, era atteso da tutti con grande impazienza e si trasformava immancabilmente in festa. La giornata iniziava prestissimo, prima dell’alba. Si iniziava a far bollire l’acqua dentro a “lu callaro” – ne serviva tanta – con l’addetto che si occupava di accendere il fuoco e tenere la fiamma sempre alta. Giunto il norcino, si dava inizio al rito. C’era chi entrava nella stalla e legava bene la povera bestia e altri, generalmente grandi e forti, che si occupavano di buttare l’animale sulla “tina” tenendolo ben fermo, in attesa che il norcino di turno provvedesse a scannarlo per farlo dissanguare.
Il dissanguamento doveva essere rapido e completo. Il povero animale emetteva versi raccapriccianti che si diffondevano per tutto il paese. Per questo oggi, dopo la pesatura, l’animale viene prima stordito con un colpo di pistola e poi dissanguato. Il compito di raccogliere quel sangue, in parte cucinato per il pranzo e il resto utilizzato per la preparazione del sanguinaccio, era in genere eseguito dalle donne, dalle “commari”. Una volta ultimato il dissanguamento, il norcino iniziava a versare l’acqua bollente sulla pelle dell’animale per favorire la rimozione delle setole ed evitare di danneggiare la carne. Quando le setole cominciavano a distaccarsi dalla pelle, iniziava il raschiamento che consentiva di ripulire perfettamente l’animale che, solo dopo che era perfettamente pulito, poteva essere sezionato. Per arrivare a questo si passavano anche delle fascine di paglia incendiata per bruciare le ultime setole.
Successivamente l’animale veniva appeso ad un’altezza maggiore con la testa rivolta verso il basso per favorirne il dissanguamento completo. Quindi si staccava la testa, si lavava con acqua calda e si appendeva con un gancio ad una trave insieme alle interiora (fegato, polmoni e milza) per farla scolare. Poi si tagliava l’animale in senso longitudinale facendo attenzione a non danneggiare gli organi interni. Rimossi tutti gli organi interni, la carcassa poteva essere sezionata in quattro parti, due anteriori e due posteriori. Le budella venivano prima pulite e poi lavate per essere successivamente impiegate per l’insaccamento dei salumi. Il grasso del maiale veniva usato per la produzione del lardo e, in alcuni casi, del sapone. Quindi si cominciava a disossare tutte le parti della carne, scegliendo quella più adatta per il prodotto finale: testa, guanciale, lardo, lardello, coppa, lonza, costarelle, spalla, zampetto, pancetta, filetto, coscia.
Anche questo lavoro era considerato in passato una festa, tra gli sfottò e le battute dei presenti mentre si buttava l’acqua bollente per la pelatura e i più piccoli che sulle orme dei più grandi iniziavano a pelare la coda dell’animale. La giornata proseguiva con la degustazione della “padellaccia”, la “panonta” e “lu picone”, rigorosamente annaffiati da abbondante vino fatto in casa e in un contorno di battute, barzellette, aneddoti, ricordi di un ruggente passato e di qualche rima di canto a braccio.